SCROVEGNI ED EREMITANI
La Cappella degli Scrovegni, oggi circondata dal verde nei Giardini dell’Arena, un tempo era affiancata dal Palazzo della famiglia Scrovegni e sorgeva sul terreno che Enrico Scrovegni aveva acquistato da Manfredo Dalesmanini il 6 febbraio del 1300. La commissione del ciclo affrescato è dovuta a Enrico Scrovegni che, approfittando della presenza di Giotto nella Basilica del Santo, dove il maestro fiorentino era impegnato nel ciclo della Cappella della Madonna Mora, della Sala del Capitolo e della Cappella delle Benedizioni – posta sotto il giuspatronato proprio della famiglia Scrovegni – chiese l’impegno dell’artista per realizzare il suo più importante lavoro, la decorazione della Cappella degli Scrovegni.
La tradizione vuole che Enrico, figlio di Reginaldo tra gli usurai citato da Dante nell’Inferno (Canto XVII), avesse commissionato l’opera in suffragio dell’anima del padre. In realtà studi più recenti sulla famiglia hanno messo in luce come Reginaldo fosse sì impegnato in attività finanziarie, ma che queste non avessero mai causato nessun irrigidimento nei rapporti con la chiesa. Enrico, del resto, pur continuando gli affari paterni restò in stretto contatto con il mondo ecclesiastico, tanto che riuscì a ottenere l’indulgenza direttamente dal papa, Benedetto XI, per tutti coloro che avessero visitato la Cappella (1 marzo 1304). L’unico screzio avvenne con i Frati del vicino convento degli Eremitani quando il 9 gennaio 1305, dieci settimane prima della consacrazione della Cappella, essi avanzarono alcune rimostranze al vicario del vescovo. Lamentavano che quanto Enrico Scrovegni aveva costruito non era un piccolo oratorio per devozione personale, come gli era stato concesso, bensì una chiesa vera e propria con altari e decorazioni “più per ostentazione, vanagloria e opulenza che a lode, gloria e onore di Dio”. Si può ben comprendere la critica se si considera la vicinanza dell’edificio con l’antica chiesa e del convento dei Santi Filippo e Giacomo agli Eremitani. Tuttavia a nulla valsero queste rimostranze se per la consacrazione Enrico riuscì a ottenere in prestito alcuni “panni” sacri dalla Cappella Ducale di San Marco a Venezia.Qual è dunque il vero motivo di questa commissione a Giotto da parte di Enrico Scrovegni? Gli studi hanno evidenziato come Enrico fosse un personaggio di rilievo nella Confraternita dei Gaudenti, il cui scopo era diffondere il culto della Vergine e combattere l’usura, cosa che spiegherebbe tra l’altro l’originaria intitolazione della Cappella degli Scrovegni a Santa Maria della Carità. Un’ulteriore valida motivazione potrebbe essere individuata nelle preoccupazioni di Enrico per la salvezza della propria anima, cui si può aggiungere la forte volontà di promuovere la propria casata tra le famiglie nobili in competizione in città. Del resto la stessa statua collocata nella sagrestia della Cappella, che lo raffigura in preghiera, sembra costituire una prova di autocelebrazione assolutamente inconsueta soprattutto se accostata alla sua immagine dipinta anche da Giotto stesso. Per svolgere questa pluralità di scopi Enrico Scrovegni aveva dunque bisogno di avere al suo servizio non solo il migliore artista, ma di porlo nelle condizioni di realizzare il proprio capolavoro. Per capire le grandi innovazioni introdotte da Giotto a Padova è bene fare un confronto con le sue precedenti esperienze. Dopo il lavoro nel cantiere della Basilica Superiore di Assisi si assiste a un radicale cambiamento linguistico dovuto al soggiorno romano e successivamente, prima di giungere a Padova, a quello riminese. Purtroppo risulta particolarmente difficile seguire la sua maturazione in quanto sia gli affreschi nel Palazzo del Laterano a Roma che quelli nella chiesa di San Francesco a Rimini non sono oggi più leggibili. La cosa certa è che negli affreschi padovani si riconoscono moltissimi elementi riconducibili a una conoscenza dell’arte classica.La Cappella degli Scrovegni fu affrescata in pochissimo tempo tra il 25 marzo 1303, data della dedicazione, e il 25 marzo del 1305, data di consacrazione. Le fonti scritte da cui Giotto attinse gli episodi furono i libri del Nuovo Testamento, i Vangeli apocrifi, la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze e il Physiologus, composto ad Alessandria d’Egitto tra il II e il IV secolo. Vanno inoltre segnalati i numerosi rimandi alla classicità a partire dallo zoccolo in finto marmo con le personificazioni dei Vizi e delle Virtù.
Ma l’opera del maestro fiorentino si pone in stretto legame anche con il teatro sacro, in una vera e propria commistione tra reale e illusione non solo nel gioco tra architettura vera e dipinta, che poi troverà la sua massima espressione nell’opera di Altichiero da Zevio, ma anche nel modo in cui i personaggi si inseriscono nel paesaggio e dialogano con grande espressività tra loro e con lo spettatore facendo emergere una resa reale delle dinamiche tra le persone. Un esempio significativo di questo rapporto con le sacre rappresentazioni può essere l’episodio Cristo deriso in cui Giotto trasferisce a ciascun personaggio dipinto ogni singola azione narrata nel testo evangelico che veniva messa in scena durante i riti della Settimana Santa.L’edificio restò di proprietà privata fino al 1880 quando si chiuse la diatriba tra la famiglia Foscari Gradenigo e il Comune di Padova, divenendo parte del patrimonio civico. L’istituzione pubblica era infatti preoccupata che, dopo il crollo del portico antistante la cappella del 1817 e la demolizione del palazzo nel 1824, anche la piccola chiesetta potesse subire le medesime sorti. Iniziarono quindi nuovi interventi di restauro promossi dal Comune di Padova.
Ma l’opera del maestro fiorentino si pone in stretto legame anche con il teatro sacro, in una vera e propria commistione tra reale e illusione non solo nel gioco tra architettura vera e dipinta, che poi troverà la sua massima espressione nell’opera di Altichiero da Zevio, ma anche nel modo in cui i personaggi si inseriscono nel paesaggio e dialogano con grande espressività tra loro e con lo spettatore facendo emergere una resa reale delle dinamiche tra le persone. Un esempio significativo di questo rapporto con le sacre rappresentazioni può essere l’episodio Cristo deriso in cui Giotto trasferisce a ciascun personaggio dipinto ogni singola azione narrata nel testo evangelico che veniva messa in scena durante i riti della Settimana Santa.L’edificio restò di proprietà privata fino al 1880 quando si chiuse la diatriba tra la famiglia Foscari Gradenigo e il Comune di Padova, divenendo parte del patrimonio civico. L’istituzione pubblica era infatti preoccupata che, dopo il crollo del portico antistante la cappella del 1817 e la demolizione del palazzo nel 1824, anche la piccola chiesetta potesse subire le medesime sorti. Iniziarono quindi nuovi interventi di restauro promossi dal Comune di Padova.
La fondazione della chiesa dei Santi Filippo e Giacomo agli Eremitani è legata al primo insediamento dell’Ordine degli Eremitani a Padova attestato dal 1218, data cui risalirebbe, secondo il notaio padovano Antonio Monterosso, un “tempio antichissimo officiato dai padri Eremitani di Sant’Agostino”, dedicato ai Santi Filippo e Giacomo. Le fonti riferiscono come la piccola struttura si rivelasse oramai insufficiente a ospitare la grande massa di fedeli che vi si recava per assistere alle sacre funzioni già nel 1237. Nel 1259 una donazione fornì ai Frati il terreno necessario alla costruzione di una più ampia cappella in luogo della precedente. I lavori vennero avviati nel 1264, ma la povertà dell’Ordine impose la realizzazione di un edificio di dimensioni contenute.Nel 1276 il podestà Roberto de Roberti promosse a spese del Comune di Padova la realizzazione di un’ampia chiesa con copertura in legno e tegole che sarebbe andata a sostituire il più antico e modesto edificio. Il progetto doveva rispecchiare in sostanza l’edificio odierno.Nel 1306 interviene nei lavori della facciata fra Giovanni degli Eremitani, interessante figura di enzignerio (ingegnere), dalle complesse competenze tecniche e progettuali, che sembra fosse già famoso nel 1289 quando fu registrata la sua presenza in città. Dei progetti che realizzò all’interno del territorio oggi non resta molto. Purtroppo le coperture del Palazzo della Ragione e parzialmente della chiesa dei Santi Filippo e Giacomo agli Eremitani, da lui realizzate, sono andate distrutte anche se è abbastanza attendibile ritenere che quelle attuali siano state rifatte il più possibile vicino alle originali. Gli artisti che lavorarono alla decorazione interna della chiesa dei Santi Filippo e Giacomo agli Eremitani furono: Pietro e Giuliano da Rimini che nel 1324 realizzarono la pala d’altare oggi perduta; Guariento di Arpo, la cui presenza è documentata già nel 1338 per la decorazione della seconda cappella del lato meridionale (Cappella di Sant’Antonio abate oggi Sant’Antonio da Padova) e poi più tardi, tra il 1361 e il 1365 al ciclo nel presbiterio e nell’abside (Cappella Maggiore); Giusto de’ Menabuoi che nel 1370 ricevette la commissione da Traversina Cortellieri per la decorazione della cappella omonima in onore del figlio Tebaldo, desiderosa di celebrare la memoria quale famoso giurista e intellettuale al servizio di Francesco il Vecchio da Carrara.Nel Quattrocento sarà chiamato a realizzare un ciclo pittorico nella cappella Ovetari della chiesa un’altra significativa personalità, Andrea Mantegna. Tra il 1448 e il 1457 egli realizzerà, con altri, un grandioso ciclo purtroppo gravemente danneggiato dal bombardamento dell’11 marzo 1944. A questo proposito va ricordato come anche Altichiero da Zevio abbia lavorato nella chiesa dei Santi Filippo e Giacomo agli Eremitani nel 1380, nella Cappella della famiglia Dotto, realizzando una superba Incoronazione della Vergine purtroppo distrutta proprio durante la II Guerra Mondiale.